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EVENTI

LA DIFESA DELLA AGENZIA ENTRATE – RISCOSSIONE (EI FU -? - EQUITALIA)

venerdì 30 novembre 2018


 















Con l’entrata in vigore del D.L. 193/2016 (convertito in legge con la 225/2016), tutte le competenze già attribuite alla Equitalia s.p.a. (quale soggetto incaricato per la esecuzione di tutte le espropriazioni forzate pubbliche), sono passate in capo alla Agenzia delle Entrate Riscossione (abbreviata, ADER).

Per effetto della citata normativa, l’ADER (per definizione di legge, ente parificato a persona giuridica di diritto privato) può e deve stare in giudizio rappresentato processualmente per mezzo del patrocinio ad opera dell’Avvocatura dello Stato, o tramite propri dipendenti espressamente delegati e, solo in casi eccezionali nonché particolari, avvalendosi della difesa da parte di avvocati del libero foro.

Infatti, la norma di modifica del preesistente soggetto interessato alla riscossione, all’art. 1 comma 8, così si esprime: “L'ente  e'  autorizzato   ad   avvalersi   del   patrocinio dell'Avvocatura dello Stato ai sensi dell'articolo 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in Giudizio dello Stato e sull’Ordinamento dell’Avvocatura dello Stato di cui al regio decreto 30 ottobre 1933,  n.  1611, fatte  salve  le ipotesi di conflitto e comunque su base convenzionale. Lo stesso ente puo' altresi' avvalersi, sulla base  di  specifici  criteri  definiti negli atti di carattere generale deliberati ai sensi del comma 5  del presente articolo, di avvocati del libero foro,  nel  rispetto  delle previsioni di cui agli articoli 4 e 17  del  decreto  legislativo  18 aprile 2016, n. 50, ovvero puo' avvalersi  ed  essere  rappresentato, davanti al tribunale e al  giudice  di  pace,  da  propri  dipendenti delegati, che possono stare in giudizio personalmente; in ogni  caso, ove vengano  in  rilievo  questioni  di  massima  o  aventi  notevoli riflessi economici, l'Avvocatura dello Stato,  sentito  l'ente,  può assumere direttamente la trattazione della causa. Per il patrocinio davanti alle commissioni tributarie continua ad applicarsi l'articolo 11, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546.”.

Nonostante il chiarissimo tenore letterale della regolamentazione sul punto, l’ADER ha pensato bene di costituirsi in molti giudizi, innanzi a varie magistrature, facendo buon utilizzo della prassi consolidata di affidare incarichi in favore di avvocati del libero foro, senza nessun atto prodromico come espressamente previsto dalla legge.

Tale situazione (e come sarebbe mai potuto essere diversamente) non è sfuggita all’attenzione dei Giudici della Suprema Corte di Cassazione, i quali con la sentenza n 28684 del 9 novembre 2018, hanno chiarito che:

-         In linea generale la difesa dell’ADER deve essere assunta da parte dell’Avvocatura dello Stato;

-         Nel caso in cui vi siano situazioni di conflitto di interesse per l’interessamento dell’Avvocatura dello Stato, l’ADER può fare ricorso ad avvocati del libero foro solo ove si sia in casi speciali, si siano ricevute le debite autorizzazioni – preventivamente, motivatamente e appositamente – dall’organo deliberante, sia stato ricevuto il beneplacito dell’organo di vigilanza e, infine, ma non da ultimo, sia prodotta tale documentazione nel giudizio a quo.

Per esattezza e puntualità, c’è da aggiungersi che la questione è stata trattata dai Giudici di Piazza Cavour poiché il medesimo ente (ADER) si era costituito in un processo già pendente alla data di entrata in vigore della novella (ossia il 1 luglio 2017), a mezzo di un Avvocato del libero foro, ed ha portato tale magistratura superiore a ritenere la nullità della difesa spiegata, rilevabile di ufficio nel momento in cui sia stata palesata a mezzo di costituzione effettuata da avvocati del libero foro sprovvisti di ogni atto di cui al precedente paragrafo.

Per effetto della stessa rivisitazione, appare altresì determinante andare a controllare gli atti di costituzione in giudizio, deduzioni e controdeduzioni, ricorsi in appello e Cassazione (e ogni altro atto processuale – memorie autorizzate, atti di intervento etc. etc.) al fine di verificare l’utilizzabilità e validità dei medesimi; se del caso (quantunque, appunto, trattandosi di questione che verte sulla legittimazione processuale del difensore quale eccezione rilevabile di ufficio in qualsiasi stato e grado del procedimento), sollevare eccezioni di inammissibilità delle difese tutte spiegate e inutilizzabilità delle deduzioni avanzate e della documentazione allegata dall’ADER.

La difesa giudiziale dell’ADER deve quindi avvenire, in via generale, ad opera dell’Avvocatura dello Stato e, solo in via del tutto residuale ed eccezionale, ad opera di avvocati del libero foro.

L'EREDITA' - LE AZIONI A TUTELA DEGLI EREDI

martedì 27 novembre 2018


Non sempre nelle successioni a causa di morte (comunemente “eredità”), i vincoli famigliari più stretti, ricevono quanto dovrebbero.

Tutto ciò ha portato giuristi dell’epoca del diritto romano a immaginare delle azioni (cause) attraverso cui procedere alla tutela del malcapitato parente escluso (parzialmente o totalmente) dall’eredità del defunto.

Tutta la materia è stata ripresa e fatta propria dal nostro Codice civile del 1942, laddove agli articoli 553 e successivi vengono normate le due azioni volte alla predetta tutela: l’azione di riduzione e l’azione di petizione di eredità.

Le due azioni si differenziano poiché mentre la prima ha per scopo la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre e vede quali attori delle controversie il legittimario leso, quello escluso dal testatore, l’erede e l’avente causa del legittimario; la seconda invece, mira ad ottenere la restituzione di beni ereditari da chiunque li detenga, previo riconoscimento della qualità di erede.

Per comprendere meglio ciò di cui si scrive, non si può prescindere da un breve glossario etimologico (spiegazione dei termini utilizzati), dovendo iniziare ovviamente dalla definizione delle tipologie di eredi:

-         Eredi testamentari: tutti coloro i quali succedono nelle posizioni giuridiche del defunto in forza di disposizioni unilaterali testamentarie;

-         Eredi legittimi: tutti coloro i quali succedono nel patrimonio del defunto (intendendosi per tale sia le posizioni attive – crediti e proprietà – che quelle passive – debiti e similari -) in forza di puntuali disposizioni di legge;

-         Eredi legittimari: sono invece dei parenti del defunto (ad iniziare dal coniuge superstite e i figli) a cui la legge riserva espressamente una quota dell’eredità, a prescindere da qualsivoglia disposizione testamentaria.

Ed è proprio in soccorso di quest’ultima categoria che le azioni in parola vengono in rilievo, proprio perché poste a tutela della intangibilità delle cosiddette quote di riserva o di legittima; in buona sostanza, il defunto non può disporre liberamente (sia tramite donazioni, sia tramite testamento) del proprio patrimonio in virtù dei rapporti parentali esistenti al momento del trapasso a miglior vita.

E’ bene a tal proposito chiarire che quando si parla di quote di riserva non si devono considerare tali, delle quote definite in senso qualitativo (ad esempio, una determinata porzione di un immobile caduto in successione), ma tale rappresentazione prevista per legge deve intendersi nel senso quantitativo (per cui, la quota ben può essere soddisfatta pel tramite di un pagamento di somme di denaro equivalenti, laddove esistenti).

Partendo con l’azione di riduzione, la stessa si sviluppa mediante vari passaggi volti a comprendere con esattezza il cosiddetto “asse ereditario” (quindi, con una valutazione estimativa volta alla quantificazione monetaria dei beni ritrovati al momento del decesso del congiunto – relictum – nonché di quanto eventualmente donato (direttamente e indirettamente) in vita.

Una volta operata tale fittizia riunione dell’asse ereditario, bisogna procedere a sottrarre dalle attività, tutte le passività facenti capo al de cuius (i debiti, con i vari distinguo asseconda della natura di questi ultimi).

Dopo tale non facile rappresentazione estimativa (poiché alle volte coinvolgente beni di diversa natura e necessitante accessi non altrettanto facilmente esaudibili – si pensi al caso delle somme esistenti su di un conto corrente esistente al momento del decesso e all’ottenimento da parte del legittimario pretermesso di copia dei dati intelleggibili degli estratti conto -), si dovrà intraprendere una vera e propria causa civile in cui richiedere l’accertamento della qualità di erede (nel caso di pretermissione) e/o la dichiarazione di nullità delle disposizioni testamentarie e/o donazioni effettuate in vita perché lesive delle quote di riserva; infine, procedere con l’ottenimento di un provvedimento che obblighi gli eredi e i terzi detentori alla restituzione delle somme o quantità di beni caduti in successione equivalenti alla quota di riserva lesa.

L’azione di riduzione è soggetta in generale al termine prescrizionale (si può intraprendere) di dieci anni decorrenti dall’apertura della successione (o, da momento successivo in alcuni casi particolari – si pensi tra tutte al riconoscimento della qualità di figlio del defunto avvenuta successivamente rispetto alla predetta apertura della successione -).

Di converso, l’ulteriore azione (petitoria)  ha per oggetto appunto l’acclaramento della qualità di erede e la richiesta di restituzione dei beni detenuti da soggetti titolati o meno rispetto a quanto caduto in successione.

Nonostante possa sembrare simile la tutela apprestata, le due azioni si differenziano proprio perché la seconda è volta a sconfessare la illegittima detenzione di beni caduti in successione da parte di soggetti contestanti appunto la qualità di erede del soggetto interessato (si pensi ad esempio al caso in cui il defunto abbia donato in vita l’unico cespite immobiliare detenuto in favore di uno solo dei due figli, non lasciando alcunché in punto di morte con consequenziale successiva mancata apertura della successione).

Ulteriore differenza esistente tra le due azioni, consiste proprio nel fatto che la seconda, poiché volta all’acquisizione della qualità di erede, è imprescrittibile, per cui potrà essere azionata in qualsiasi momento pur di riuscire a rientrare nella titolarità dei beni del de cuius.

Quantunque le due azioni possano risultare di non pronta comprensione, il diritto successorio come normato dal codice civile vigente, risulta sicuramente normativa chiara e indiscussa; per completezza descrittiva è appena il caso di ricordare, come anche tale materia rientra tra quelle per cui è prevista la procedura alternativa di risoluzione delle controversie della mediazione civile; per cui, ancor prima di intraprendere le predette azioni, necessario ed obbligatorio è il dover percorrere la via risolutiva stragiudiziale.  

LA FIDEIUSSIONE: IL MERITO DOPO CASSAZIONE 29810

giovedì 22 novembre 2018












Con l’ordinanza 29810 del 12 dicembre 2017, la Cassazione ha aperto uno scenario interpretativo variegato, andando in primis a sancire espressamente come (cfr. 11.2): “….qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque forma venga posta in essere, costituisce comportamento rilevante ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 2 della legge Antitrust…”.

Tale provvedimento (per altro verso, già citato al seguente link http://www.studiolegalescaringella.it/2018/11/la-fideiussione-e-la-tutela-della.html ) dichiara altresì nulli tutti i negozi a valle (ossia, quelli sottoscritti da consumatori - e non - riproducenti gli schemi a monte dichiarati nulli) contenenti alcune clausole già oggetto di dichiarazione di illiceità per contrarietà alla normativa antitrust ad opera dell’autorità garante per la concorrenza (ed esattamente quelli incorportanti clausole di reviviscenza, sopravvivenza e deroga all’art. 1957 del codice civile).

Dal dicembre 2017 ad oggi, vari Tribunali hanno già avuto modo di affrontare la materia e, come immaginato da diversi autori, diversi dubbi interpretativi sono stati lasciati agli operatori (e consumatori direttamente interessati poiché fideiussori in altrettante garanzie prestate).

Infatti, è lecito chiedersi se: 1) a seguito della citata ordinanza, i contratti di fideiussione riproducenti le predette clausole, debbano intendersi colpiti da nullità assoluta o nullità relativa alle sole pattuizioni in parola; di conseguenza, 2) la relativa eccezione debba essere sollevata dal fideiussore oppure è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del processo civile; 3) il processo di opposizione incardinato innanzi al Tribunale emittente il decreto ingiuntivo debba essere sospeso per la soluzione della questione pregiudiziale (nullità contrattuale per contrarietà alla normativa antitrust, di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa) e debba essere sospesa altresì la provvisoria esecutorietà del provvedimento ingiuntivo; 4) ove l’eccezione venga sollevata in appello, valga quale causa per la sospensione del provvedimento di I grado oggetto di impugnativa.

Ad onor del vero, si potrebbe continuare riempiendo pagine intere di quesiti possibili; si preferisce cercar di dar delle risposte sulla base delle sentenze di merito già ad oggi esistenti.

Partendo dalla sentenza più lontana nel tempo (rispetto ai provvedimenti emessi dai Tribunali e dalle Corti di Appello dall’ordinanza della Cassazione ad oggi), la Corte di Appello di Firenze con provvedimento del 18/7/2018 ha ritenuto di dover interpretare sussistenti i presupposti per sospendere la provvisoria esecuzione della sentenza di I grado alla luce del principio dettato dalla Cassazione con la 29810 del 12/12/2017.

Con ciò, quantunque la Corte territoriale si sia determinata ad una attenta analisi più approfondita ad effettuarsi solo nel corso del prospettato gravame (del resto, a sommesso avviso dello scrivente, non avrebbe potuto fare diversamente), ha lasciato disattese le speranze degli operatori sui molteplici dubbi di cui sopra.

La XVI sezione civile del Tribunale di Roma si è spinta oltre e, con l’ordinanza del 26/7/2018, ha respinto la richiesta di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto e ordinato la prosecuzione secondo l’ordinario svolgersi processuale come richiesto dalle parti.

Il Tribunale di Treviso, senza peraltro averne cognizione (ex art. 33 legge 287/1990 come novellato ai sensi dell’art. 3 d. lgs. 3/2017), ha ritenuto di non dover ravvisare l’applicabilità della normativa antitrust e del principio di diritto dalla Cassazione enunciato al caso sottopostole (sentenza n. 1632/2018 del 30/7/2018); per altro verso, le argomentazioni poste a base della decisione, denotano attenta (e saggia) rilettura delle cause di nullità afferenti la fattispecie in materia di fideiussione.

Più vicina nel tempo è la sentenza n. 3016 del 28 agosto 2018 emessa dal Tribunale di Salerno (ferme restando le ovvie perplessità come chiarite in punto di competenza); di tale provvedimento già si parla quale sentenza pilota, stante l’avvenuto riconoscimento del giudicante della piena applicabilità della normativa antitrust alle fideiussioni riproducenti le maldestre clausole frutto di intese anticoncorrenziali “frutto di una collusione a monte…”.

In settembre u.s., anche il Tribunale di Rovigo si è occupato della medesima materia e, respingendo l’eccezioni in punto di diritto (sull’applicabilità della normativa antitrust alla fideiussione al vaglio), ha concesso la provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo (ordinanza del 9 settembre 2018).

Di contrario avviso il Tribunale di Fermo, che con atto del 24 settembre ultimo scorso, ha riconosciuto la mera eccezione di parte in punto di nullità del contratto di fideiussione quale valido motivo per non concedere la provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto; l’estensore si è spinto ben oltre ed ha esternato in motivazione la possibilità che tali fattispecie vengano ricondotte nell’alveo della nullità assoluta dei negozi giuridici controversi.

Infine, ma non da ultimo, il Tribunale di Brescia con proprio provvedimento del 2 ottobre 2018, ha esternato la necessità di devolvere le controversie in merito in favore delle sezioni specializzate in materia di Impresa (preliminarmente ritenendo tale competenza devoluta per materia a tali Magistrati, nonostante la competenza funzionale in materia di opposizione all’emesso decreto ingiuntivo spetti all’organo emittente).

Tale provvedimento ha altresì citato la normativa in materia di sospensione (rispetto alla spiegata opposizione) e rimessione innanzi alle speciali sezioni Impresa.

Tralasciando allo stato ogni personale valutazione rispetto ai quesiti ancora irrisolti e il di cui dipanamento vedremo solo con l’evolversi del diritto vivente in materia, non ci resta che attendere fiduciosi, nella piena convinzione che ogni singolo caso sarà attentamente vagliato e, ove ricorrano i presupposti (fumus), siano concessi i provvedimenti opportuni a difesa della legalità.

LA RIUNIONE DELLE CAUSE CIVILI

venerdì 16 novembre 2018


Il codice di rito prevede espressamente la possibilità per cui ove esistano più cause civili aventi determinate caratteristiche, queste vengano trattate congiuntamente.

La casistica in parola, è normata dagli articoli 273 e 274 del codice di procedura civile e attiene fondamentalmente alle situazioni della identità di cause pendenti davanti allo stesso Giudice nonché alle cause connesse promosse innanzi a Giudici differenti.

Di facile comprensione è la ratio sottostante il medesimo istituto, posto chè ove non esistente la riunione civile, una infinita mole di giudicati (sentenze) sarebbero potuti risultare contrastanti (in maniera esemplificativa, la pendenza di due diversi giudizi aventi entrambi quale finalità quella di ottenere un risarcimento per qualsivoglia natura, avrebbe potuto condurre a sentenze diverse e di segno opposto, ossia una di accertamento e condanna e l’altra di rigetto).

Dalla semplice lettura degli articolo citati, ben si comprende come facilmente risolvibile è la situazione di identica causa pendente innanzi al medesimo magistrato, ove questi, anche senza che le parti sollevino eccezioni di sorta (proferiscano parola in merito), deve procedere alla riunione dei processi.

Particolare è la situazione in cui le medesime cause siano pendenti innanzi a diverse postazioni giudicanti; in tal caso, il magistrato riscontrante tale anomalia, deve avvisare il Presidente del Tribunale (o, nel caso di organi della stessa sezione civile, il Presidente di questa), che a sua volta ordina la prosecuzione della causa innanzi ad uno solo dei magistrati interessati.

Ma, nel mentre i casi di cui sopra, sono di solito ritenuti dalla unanime giurisprudenza e dottrina, quali situazioni obbligatorie della riunione dei processi (per l’appunto, ex art. 273 cpc), di diverso avviso è l’atteggiarsi della riunione dei processi connessi.

Premesso che per connessione deve intendersi la situazione afferente ad una determinata situazione giuridica avente una comunanza di elementi; di seguito, in virtù degli elementi comuni, discende la classificazione in connessione oggettiva e connessione soggettiva (la prima relativa a elementi quali le ragioni del processo, la domanda giudiziaria, un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra le cause; la secondo, appunto soggettiva, allorquando i soggetti in causa, risultino uguali e/o siano comunque ricollegabili a tutela di situazioni giuridiche simili e/o affini).

Facciamo un esempio al fine di chiarire quanto si discute; nel caso una stessa assemblea condominiale, in due diverse assemblee, deliberi delle spese straordinarie (magari relative all’installazione di due distinti apparati di antenna volti a servire ciascuno parte del condominio) e un condomino sia contrario (perché dell’avviso di poter ottenere il medesimo risultato – far vedere a tutto il condominio con un’unica antenna, la televisione – con costi inferiori rispetto all’installazione del doppio impianto), questi si vedrà costretto a intraprendere una prima causa civile (nel caso che ci occupa, prima la mediazione civile, obbligatoria per la materia) e, all’esito della seconda delibera, un ulteriore giudizio.

L’assurdità della situazione (salvo ad essere sinceri il caso limite della causa connessa già in decisione) è ancor più stridente ove si pensi che la normativa in esame assegna espressamente la delibazione nel merito della eventuale riunione, in favore del Presidente del Tribunale e/o di sezione asseconda dei casi; nella prassi, da quanto è dato sapere, il Giudice Unico investito della richiesta, stante la facoltatività della riunione, procede senza formalismi di sorta, con grave nocumento rispetto alla richiesta di giustizia, legalità.

Per effetto, ci si auspica che la normativa possa essere oggetto di pronta rivisitazione, in maniera da evitare che il discrezionalismo possa diventare ragione per l’emissione di provvedimenti poco confacenti all’accaduto e essere altresì unico artefice di contrasti tra sentenze emesse da Giudici dello stesso Tribunale e/o della stessa sezione.  

Infine, ma non da ultimo, nel silenzio della norma processuale, la Suprema Corte di Cassazione in materia di prove raccolte in uno dei due processi successivamente riunito, ritiene utilizzabili le stesse solo quando raccolte tra le parti in causa e in contradditorio (ossia, garantendo la bontà della prova e i principi del processo civile con la piena e regolare partecipazione dei soggetti interessati – attore e convenuto, ricorrente e resistente -).

LA FIDEIUSSIONE E LA TUTELA DELLA CONCORRENZA

giovedì 15 novembre 2018


Da oramai oltre un ventennio, il nostro Ordinamento, adeguandosi a quanto in ambito europeo vigente, ha fatto propria la normativa in materia di tutela della concorrenza, andando a disciplinare e regolamentare ogni aspetto relativo alle intese, all’abuso di posizione dominante e allE operazioni di concentrazione (Legge 10 ottobre 1990, n. 287).

Tra le altre, di particolare importanza è la costituzione dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, istituzione amministrativa indipendente volta alla vigilanza contro gli abusi di posizione dominante, intese e cartelli lesivi o restrittivi della concorrenza, controllo delle concentrazioni societarie, tutela del consumatore in materia di pratiche commerciali scorrette, clausole vessatorie e pubblicità ingannevoli.

I poteri in materia bancaria, sono stati devoluti dalla Banca d’Italia alla stessa Autorità a far data dal 12 gennaio 2006.

Tra le materie al vaglio dell’Autorità, le fideiussioni (ritenendosi per tali tutti i contratti attraverso cui un soggetto  - cd. Fideiussore - si obbliga personalmente verso un creditore, al pagamento e garanzia di tutte le obbligazioni verso questi assunte da un terzo), sono causa di contenzioso e di pratiche scorrette effettuate dai diversi istituti di credito nei confronti dei propri clienti (tra tutte, si pensi al caso della nota fideiussione omnibus illimitata senza obbligo di comunicazione).

La stessa Autorità (all’epoca degli accadimenti rivestita dalla Banca d’Italia) ha emesso il provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, con cui ha sancito la contrarietà alla legislazione in materia anticoncorrenziale delle clausole contenute nelle condizioni generali di contratto per la Fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie.

In particolare, tale provvedimento ha rinvenuto in alcune clausole riproducenti norme predisposte dallo schema ABI nonché nella loro applicazione uniforme da parte degli istituti di credito, una intesa restrittiva della concorrenza come vietata dall’art. 2, comma 2, lett. a della citata legge 287/1990 (in particolare, l’atto si è soffermato nel ritenere illegittime le clausole di sopravvivenza, reviviscenza e derogatorie dei termini come precipuamente delineati ex art. 1957 c.c.).

Tale situazione ha portato all’instaurazione di diversi procedimenti giudiziari, volti all’accertamento della nullità dei contratti di fideiussione riproducenti tali pattuizioni.

L’assunto della illiceità dell’inserimento di tali clausole, ha condotto anche i Giudici di piazza Cavour (la Cassazione) ad emettere provvedimenti allineati alla suddetta interpretazione.

Ed infatti, con la ordinanza n. 29810 del 12/12/2017, si è statuita la possibilità di vaglio giudiziale di tutte quelle condotte contrattuali (e non) che rappresentano realizzazione “a valle” (nei confronti dei consumatori) di clausole “a monte” dichiarate illegittime, poiché contrarie alla normativa di tutela della concorrenza e dei mercati.

Pel caso che ci occupa, ancor più rilevante appare il dover intraprendere tali tipi di controversie, poiché la relativa competenza in materia è stata di recente devoluta in favore delle sezione specializzate per l’impresa (ex art. 3 D. Lgs. 3/2017).

Peraltro, solitamente tali situazioni processuali (come anche nel caso all’attenzione della Cassazione), prendono spunto da procedimenti volti a recuperare quanto prestato dagli istituti bancari contro i garanti (di solito, tramite ingiunzioni di pagamento ante causam); quindi, in primis sono incardinati innanzi al Giudice competente nel merito (Tribunale).

Solo in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, si dovrà sollevare eccezione di incompetenza per materia e richiedere la rimessione innanzi alla competente sezione specializzata in materia di impresa, unica titolare del potere giurisdizionale volto all’accertamento delle condotte contrarie alla normativa anticoncorrenziale e, nel caso delle fideiussioni, a poter constatare la nullità delle stesse poiché contrarie al dettato di cui all’art. 2, III comma L. 287/1990.  

L'ILLECITO CONCORRENZIALE CONFUSORIO

martedì 13 novembre 2018













In materia di marchi, spesso si rinviene la necessità di tutela dell’impresa (e, della propria azienda) rispetto a condotte di competitors più o meno consapevoli, volte a creare confusione nei destinatari dei prodotti presenti sul mercato.

Tralasciando la disanima tra le varie tipologie definitorie dei marchi (coinvolgenti la consequenziale maggiore o minore tutela proprio in materia di confondibilità del caso asseconda che si tratti di marchi cosiddetti “forti” o “deboli”), per inquadrare l’istituto in parola, non si può prescindere dal dato normativo di riferimento.

Tale è l’articolo 2598 1) del codice civile, il quale definendo le fattispecie riconducibili nell’alveo della concorrenza sleale, rintraccia questa in chiunque: “usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”.

Di pronta desumibilità appare l’ambito di applicabilità della norma in parola, rintracciando quali naturali destinatari tutti i soggetti che si trovino o si possano trovare in un rapporto di concorrenza economica (ergo¸tutti gli imprenditori operanti in un dato mercato).

Delineato il campo di applicabilità, opportuno appare definire con chiarezza e puntualità gli elementi su cui il giudizio di confondibilità verte; chiarificatore è stato l’intervento della Cassazione con cui si ha ritenuto che “in attuazione della Direttiva CEE n. 89/104, la tutela del marchio comprende non soltanto il rischio di confusione, determinato dalla identità o dalla somiglianza dei segni utilizzati per contrassegnare prodotti identici o affini, ma anche quello relativo alla semplice associazione fra i due segni, tale da poter indurre in errore il pubblico circa la sussistenza di un particolare legame commerciale o di gruppo tra l'impresa terza ed il titolare del marchio” (così Cassazione civile, sentenza n. 3639 del 13 febbraio 2009).

E’ di tutta evidenza l’ampliezza dei confini della tutela in parola, a maggior ragione laddove è stato affermato che il rischio di confondere i consumatori nel riconoscimento del marchio ricercato deve essere valutato “globalmente, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti del caso di specie, con una certa interdipendenza fra i fattori che entrano in considerazione e in particolare la somiglianza dei marchi e quella dei prodotti”.

Riassumendo, appare di poter dire che la tutela non ha limiti dal punto di vista spaziale, a tal punto da potersi estendere worldwide ed è applicabile andando ad analizzare caso per caso il reale conflitto riconoscitivo provocato dall’utilizzo di marchi facilmente confondibili o riconducibili al titolare della primogenia.

Le condotte che meglio si attanagliano alla tutela in parola, sono sicuramente relative all’ utilizzo di marchi idonei a confondere il consumatore nell’individuazione di quelli effettivamente ricercati e legittimamente usati da altri imprenditori; ed ancora, una imitazione abbastanza fedele dei prodotti del competitor, nonché, infine, gli atti o i fatti idonei a creare confusione con i prodotti e servizi resi da terzi.

Consequenzialmente, non vi è dubbio alcuno che non solo la mera confusione di marchi può essere oggetto della tutela in parola, dovendosì altresì analizzare la capacità dei predetti atti e fatti a creare effettivamente uno scambio tra prodotti e servizi simili e il connesso pregiudizio discendente dal procurato misunderstanding.

Desumibile pertanto diviene il bene giuridico oggetto di tutela, dovendosi rintracciare questi da un canto nell’interesse imprenditoriale a non subire pregiudizi per cause altrui rispetto al conseguimento del proprio profitto; d’altro canto e parimenti rilevante appare la tutela così apprestata in favore dei consumatori finali onde evitare che possano incorrere in errore, garantendo sempre agli stessi un mercato leale, trasparente e competitivo.


Il disegno di legge Pillon

lunedì 12 novembre 2018


In questa epoca laddove tutto si consuma contemporaneamente al lasso necessario per mandare un messaggio della più nota messaggistica presente sul mercato, anche le separazioni e i divorzi (e, in maniera inversamente proporzionale, i matrimoni) sono all’ordine del giorno e, alle volte, anche solo dopo pochissimi mesi di convivenza post matrimoniale, la coppia “scoppia”.

Dopo l’introduzione nel nostro ordinamento della legge sul divorzio (1° dicembre 1970,  Legge 898), vari sono stati gli interventi che hanno visto modifiche anche di non poco conto all’originario testo, giungendo fino ai giorni nostri in cui è prevista la possibilità di procedere dapprima con la separazione (mantenendo il vincolo matrimoniale in essere ma essendo autorizzati a vivere separati di “letto e di mensa”) e poi (ove ne ricorrano i presupposti rintracciabili nella decorrenza di termini dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale) a sciogliere o cessare il matrimonio  - asseconda rispettivamente si tratti di matrimonio civile o concordatario – nei successivi 12 o 6 mesi dalla citata comparizione (legando tali termini alle distinte fattispecie di separazione consensuale o giudiziale intraprese dai ricorrenti).

Come sicuramente risaputo, l’interesse preminente da tutelare in tali casi, è quello afferente la tutela dei figli della coppia, a maggior ragione laddove questi siano ancora minori.

In questo ambito, senza che vi sia necessità di ricorrere a statistiche del caso, nella stragrande maggioranza dei casi, i figli minori, anche in situazioni di affidamento condiviso genitoriale, sono collocati presso la madre, la quale a sua volta ottiene il previsto assegno di mantenimento per le cure ad apprestarsi (oltre, solitamente, a prevedersi una serie di ulteriori pattuizioni di natura economica sempre a garanzia della educazione, mantenimento ed istruzioni dei figli).

Se da una parte, tali conflitti famigliari possono portare a situazioni di disagio (pericolo, frustrazione etc. etc. etc.) sia per sventurate mogli che per incolpevoli figli, d’altro canto, i postumi di una separazione e/o divorzio possono decisamente modificare la vita di uomini/mariti poiché coinvolgenti aspetti economici, psicologici e non idonei a far parlare delle medesime situazioni quali nuovi fenomeni sociali preoccupanti costituenti i nuovi poveri (cosiddetti padri separati).

Il dilagante numero dei divorzi (gli ultimi dati come riportati dal report Istat in materia, a seguito dei due anni dall’entrata in vigore della normativa in materia di divorzio breve, riportano un aumento rilevante delle cessazioni o scioglimenti dei vincoli matrimoniali) unitamente al predetto problema sociale, ha condotto la maggioranza politica del paese ad immaginare una riforma della materia, rappresentata e nominata (dal nome del presentatore) disegno di legge Pillon (disegno di legge 735).

Permeato da un’ottica di rivisitazione generale degli equilibri post-divorzili (e post separazione coniugi), il disegno di legge, con l’intento preciso di salvaguardare “l’affidamento condiviso, il mantenimento diretto e la garanzia di bigenitorialità”, ha suscitato (nonostante sia ancora allo stato embrionale e lungi dal potersi ritenere fonte del diritto) non poche contestazioni, poiché a detta dei suoi detrattori, foriero di situazioni di squilibrio a svantaggio delle madri separate/divorziate.

In concreto, la proposta prevede (ci si ripete, qualora diventasse legge senza modifiche all’attuale impianto) per le coppie separande con figli minori, l’attivazione di una procedura di mediazione famigliare (obbligatoria e condizione di procedibilità per l’eventuale azione innanzi al Tribunale) ancor prima di potersi rivolgere ad un Giudice.

Quindi, tale procedura di mediazione effettuata pel tramite di soggetti privati costituiti ad hoc (lo stesso disegno di legge enuclea le caratteristiche del nuovo soggetto mediatore professionale incaricato), impone tale nuovo iter al fine di poter redigere consensualmente tra i separandi un “piano genitoriale”, con il preciso intento di andare a regolamentare: 1) i luoghi abitualmente frequentati dai figli; 2) scuola e percorso educativo del minore; 3) attività extrascolastiche, sportive, culturali ed educative  e, da ultimo, 4) le vacanze normalmente godute.

In riforma della normativa sostanziale come prevista ai sensi dell’art. 337-ter del codice civile, il disegno prevede tempi equipollenti o paritetici di convivenza del minore con ciascuno dei genitori, salvi ovviamente i casi di impossibilità materiale.

Del tutto inderogabile come principio della proposta è il doppio domicilio del minore e, quale aspetto dai seri dubbi di legittimità, si prevede l’impossibilità dello stesso minore di poter intervenire nella scelta del genitore presso cui essere collocato.

Sicuramente confortante una vera e propria rivoluzione del diritto di famiglia rispetto a quanto sino ad oggi accaduto in tutti (o, comunque, nella stragrande maggioranza dei procedimenti per separazione e divorzio) i casi in parola, la prospettata normativa fa discendere dal principio di genitorialità perfetta, l’equa ripartizione delle spese (ordinarie e straordinarie) necessarie per la crescita del minore, abolendo definitivamente l’istituto quest’oggi in essere dal diritto al mantenimento a versarsi in favore del coniuge collocatario.

Per altro verso e sempre fonte di non pochi commenti negativi, appare altresì la regolamentazione in materia di casa coniugale, laddove il provvedimento prevede il pagamento di un canone da un coniuge in favore dell’altro nel caso in cui l’immobile sia cointestato, nonché l’obbligo di lasciare la stessa casa gravante sul coniuge non titolare di diritti reali o personali (usufrutto, uso, abitazione, comodato etc. etc.) o convivente more uxorio o risposato.

In questa sede non si proferisce parola (volutamente) sulle condotte relative alle donne vittime di violenza domestica, auspicando che quanto riportato dal testo in esame, possa essere oggetto di attenta e ponderata rivisitazione avente quali obiettivi  la salvaguardia primaria degli interessi dei minori nonché quelle delle malcapitate vittime di violenza domestica; si precisa che la regolamentazione de qua è rintracciabile agli articoli 17 e 18 del citato disegno di legge.    


LA QUERELA DI FALSO INCIDENTALE

sabato 10 novembre 2018


Solerte può risultare necessario intraprendere il procedimento per querela di falso, volto a porre nel nulla la validità dei contenuti di un documento (atto pubblico – ex art. 2699 c.c. - o scrittura privata riconosciuta o giudizialmente accertata – ex art. 2702 e scucc. c.c.) e le sottoscrizioni presenti nello stesso comprovanti situazioni giuridiche non veritiere e/o autentiche.

Tale procedimento trova applicazione nei più svariati ambiti giuridici (tra gli altri, in tutte le forme contrattuali o nei negozi unilaterali dispositivi – ad es. testamento -).

L’istituto normato espressamente dagli art. 221 e succ. del codice di procedure civile, prevede la possibilità di agire sia in via principale (instaurando un autonomo procedimento volto all’acclaramento della falsità), sia in via incidentale richiedendo appunto la medesima verifica nel corso di una causa già pendente (si pensi tra tutti, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, laddove il creditore opposto veda porsi nel nulla la propria pretesa creditoria mediante il deposito di documentazione comprovante l’esistenza di un credito compensante il vantato e nella propria comparsa di costituzione e risposta richieda appunto la verificazione in esame; in tal caso, dovendosi ritenere quale attore sostanziale il creditore opposto, avremo una peculiare proposizione di procedimento incidentale dal punto di vista formale ma richiesto in via principale dal punto di vista sostanziale -).

La querela di falso non incontra limiti preclusivi alla proponibilità, stante il chiarissimo tenore letterale della norma succitata che recita: “…in qualunque stato e grado di giudizio ….”; finanche in sede di legittimità, quando la falsità sia relativa a documenti prodotti ex art. 372 cpc. (e, quindi, per la prima volta, proprio innanzi alla Suprema Corte).

I requisiti formali perché possa ritenersi ammissibile la querela di falso incidentale (con consequenziale declaratoria di nullità in caso di omissione degli stessi) sono gli elementi e le prove della falsità (anche rispetto a tali requisiti, di non pronta soluzione può risultare il caso della falsità dell’abusivo riempimento di foglio sottoscritto in bianco e abusivamente riempito absque pactis – senza che vi siano tra le parti pattuizioni rispetto agli accordi a prendersi -, poiché coinvolgenti necessariamente esami di natura tecnico scientifica quali ad esempio la consulenza in chimica forense grafologica volta a riferire la sequenza cronologica di apposizione tra una mano scrittura - la sottoscrizione appunto - e la dattilo scrittura).

Poiché il giudizio coinvolge un interesse generale qual è appunto l’intangibilità della pubblica fede, nella querela è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero nonché la competenza funzionale e inderogabile è devoluta in favore del Tribunale in composizione collegiale.

Tale aspetto della vicenda, nonostante il chiarissimo tenore letterale della normativa procedurale, lascia spazio a dubbi interpretativi non di poco conto, sol che si pensi al caso in cui nonostante la prospettata querela in via incidentale, il Giudice monocratico investito della causa principale, non ritenga necessario instaurare il relativo procedimento nonostante il documento in esame risulti rilevante al fine di decidere la controversia (con buona pace del principio della domanda e del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato su cui tutta la procedura civile si fonda, sic!).

 L’assunto in materia è altresì avvalorato dal caso in cui la querela venga proposta per la prima volta in appello, laddove la Corte territoriale sarà tenuta a sospendere il procedimento principale rimettendo le parti innanzi appunto al competente Tribunale in composizione collegiale.

Del documento oggetto di contestazione (di cui, per esempio, a maggior ragione poiché vigente il processo civile telematico, non vi è l’obbligo del deposito del cartaceo originale), la normativa richiede una serie di formalità (sequestro, sottoscrizione delle parti, Giudice e Pm etc. etc.) rilevanti secondo la più recente Cassazione solo ove il Giudice li ritenga necessari a propria discrezione, non comminando altresì alcuna sanzione qualora omessi.

Il Giudice investito della questione principale, deve rimettere la questione al competente Collegio, il quale vagliata l’ammissibilità e ritenuti validi gli strumenti istruttori richiesti, dovrà procedere all’assunzione degli stessi, per poi passare alla decisione della vera e propria causa (medio tempore, il Giudice investito incidentalmente, può sospendere in attesa della definizione della querela, rimettere merito e causa incidentale oppure proseguire dopo aver distinto quanto risolvibile a prescindere dall’esito del procedimento incidentale)

Infine, ammessa la querela, espletati i mezzi istruttori innanzi al competente organo, il Collegio decide e all’art. 226 del cpc vengono previsti una serie di altri incombenti legati alla prefata decisione.

La sentenza che definisce la querela, può essere impugnata con gli ordinari mezzi di impugnazione, sia autonomamente sia contestualmente alla impugnazione del provvedimento con cui si conclude il processo principale.

LA FATTURAZIONE ELETTRONICA E LA VALIDITA' NEL TEMPO

venerdì 9 novembre 2018

Come probabilmente risaputo, da gennaio 2019 diventa obbligatoria anche nei rapporti tra privati l’obbligo di emissione di fatturazione elettronica (e così sarà sia allorquando si tratti di operazioni effettuate tra operatori titolari di P.IVA – B2B, business to business -, sia quando le operazioni avvengono tra operatori titolari di P. IVA e consumatori finali – B2C, business to consumer).

Tale obbligo termina tutto l’iter sviluppatosi in materia a partire dalla normativa intracomunitaria (avente riscontri anche rispetto ad operazioni extracomunitarie) di cui alla oramai datata Direttiva 2014/55/UE del 16 aprile 2014; proprio tale direttiva ha determinato l’entrata in vigore della fatturazione elettronica nelle transazioni con la Pubblica Amministrazione, in essere quale obbligo (rectius, facoltà) previsto per legge  sin dal mese di maggio del 2014.

Obbligo divenuto cogente per le prestazioni di servizio o cessioni di beni in favore delle Pubbliche Amministrazioni aventi ad oggetto benzine o gasolio per autotrazione e subappalti nei contratti pubblici di appalto dal 1 luglio 2018.

Nel caso che ci occupa relativo al futuro obbligo di fatturazione elettronica anche tra privati, la relativa fonte è rintracciabile nella legge di bilancio 2018, con l’intento principale (in armonia con tutte le previsioni legislative in parola) di combattere l’evasione fiscale (con focus principalmente in materia di IVA) e facilitare i procedimenti e gli adempimenti tributari (cd. dematerializzazione)

In particolare, tutti gli operatori al 1 gennaio 2019 dovranno presentarsi pronti alla predisposizione, trasmissione, ricezione e conservazione dei nuovi formati di fatturazione, secondo quelli che sono gli standard definiti dall’Agenzia delle Entrate e riprodotti pedissequamente nel provvedimento da questa emanato avente numero 89757 del 30 aprile 2018 (rinvenibile al seguente link: https://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/nsilib/nsi/normativa+e+prassi/provvedimenti/2018/aprile+2018+provvedimenti/provvedimento+30042018+fatturazione+elettronica ).

Nel merito delle operazioni come innanzi indicate (predisposizione, trasmissione, ricezione e conservazione), oramai si può ritenere che tutti gli operatori interessati dall’obbligo, siano pronti almeno a 3 su 4 delle stesse operazioni, ossia alla predisposizione, trasmissione e ricezione.

Nel dettaglio, per la predisposizione sarà richiesto al singolo emittente fatturazione elettronica di procedere alla redazione di un documento informatico in formato xml, firmato e marcato digitalmente.

La trasmissione della fattura avverrà pel tramite di una piattaforma già operativa sul sito dell’ADE (denominata Sistema di interscambio - SDI), cui si accederà con le credenziali SPID, Entratel o Fisconline; a sua volta, l’Agenzia delle Entrate effettuerà dei controlli e verificherà i dati obbligatori ai fini fiscali (art. 21 ovvero 21-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633) e l’indirizzo telematico del destinatario (c.d. “codice destinatario” ovvero indirizzo PEC).

La ricezione sarà garantita tramite debita “ricevuta di recapito”, restituita proprio dalla stessa Agenzia in favore del soggetto emittente e costituirà prova dell’avvenuta consegna.

Rimangono dei dubbi dal punto di vista fattuale rispetto alla conservazione, prevista ai sensi dell’art. 2220 del codice civile, sarà cura dell’emittente garantire autenticità, integrità, affidabilità, leggibilità e reperibilità del la nuova fattura elettronica.

A tal proposito, nel mentre la stragrande maggioranza dei destinatari della novella in materia è già fornito sia di PEC che di dispositivi validi ai fini della firma digitale, non tutti sono pronti e avvezzi all’utilizzo delle cosiddette marche temporali.

La marca temporale altro non è che una mera procedura attraverso cui andare a certificare che in un determinato giorno e ad una determinata ora è stato creato e firmato un documento informatico (in termini più tecnici, la si suol definire come la procedura volta a determinare una nuova impronta hash).

Si potrebbe obiettare che già la validità temporale del certificato della firma digitale, funge da timer dell’atto sottoscritto; ma, come risaputo, anche tale marcatura temporale, purtroppo, è a termine (salvo il caso in cui ad esempio, si sia proceduti con un deposito telematico in un qualsiasi processo telematico che consente la validazione dell’atto informatico sine die).

Mutatis mutandis, la marca temporale consente in termini probatori la datazione precisa di un determinato atto (nel caso di specie, appunto, fattura) e ovvia al problema di garantire l’affidabilità, l’autenticità e l’integrità delle fatture elettroniche ad emettersi.  

La “materiale” conservazione del documento dematerializzato come richiesto dalla normativa, viene offerto del tutto gratuitamente dallo stesso portale dell’Agenzia delle Entrate (con accesso tramite il seguente Link https://ivaservizi.agenziaentrate.gov.it/portale/ ).

Infine, non di poco conto sono le conseguenze per tutti i malcapitati contribuenti che non si adeguano all’obbligo di emissione di fatturazione elettronica, laddove espressamente la normativa rimarca che la mancata osservanza importa l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 6 del Decreto Legislativo n. 417/97, disponendo una sanzione amministrativa compresa tra il 90% e il 180% dell’imposta determinata da un imponibile non documentato in maniera corretta o registrato nel corso dell’esercizio.

LA COMPETENZA NELLA ESECUZIONE TRIBUTARIA - LE OPPOSIZIONI

giovedì 8 novembre 2018

Nella moltitudine di norme relative alla esecuzione tributaria, oramai risalente e mai risolto era stato il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice tributario, lasciando libero arbitrio interpretativo agli operatori del diritto (avvocati e, soprattutto magistrati) sul come operare; lasciando altresì colpevoli incolpevoli di questo empasse interpretativo i poveri malcapitati contribuenti. 

Il quadro normativo di riferimento in punto di opposizioni alla esecuzione tributaria è costituito: 

1) dal D. Lgs. 546/1992, comunemente conosciuto quale codice del processo tributario e il cui articolo 2, rubricato “Oggetto della giurisdizione tributaria”, delinea i contorni della medesima giurisdizione, indicando che qualsiasi controversia avente ad oggetto pretese tributarie rientra nell’alveo della giurisdizione speciale nel mentre rimangono “….escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui all'articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica…”; 

2) sempre dal D. Lgs. 546/1992, dall’art. 19 contenente una elencazione esemplificativa ma (dalla rivisitazione giurisprudenziale ritenuta) non esaustiva e soggetta ad ampliamento ad opera dell’interprete degli atti impugnabili innanzi al giudice tributario; 

3) dal DPR 602/1973 (Testo unico in materia di accertamento tributario), il di cui art. 49, II comma in materia di procedimento di espropriazione forzata tributaria, lo definisce testualmente regolato “…..dalle norme ordinarie applicabili in rapporto al bene oggetto di esecuzione…”; 

4) dall’art. 57 del predetto testo unico nella parte in cui espressamente devolve alla giurisdizione ordinaria le opposizioni ex artt. 615 cpc (salvo quelle in punto di pignorabilità dei beni) e 617 cpc ove non siano relative alla regolarità formale e alla notificazione del titolo esecutivo; 

5) da ultimo, in via generale e residuale, ex art. 9 cpc, la competenza del tribunale in materia di imposte e tasse. 

Da tale necessario inquadramento legislativo, ne deriva che in punto di riparto di giurisdizione tra l’ordinaria e la tributaria, non è discusso come sono devolute le sole cause concernenti il titolo esecutivo e il diritto di procedere ad esecuzione forzata in favore del giudice tributario; nel mentre, in tutti gli altri casi, permane come espressamente previsto dal codice di rito civile, la giurisdizione ordinaria (ed esattamente in materia di opposizioni ex artt. 615, 617 e 619 cpc). 

Dal novero delle predette controversie, rimane ancora esente dal trovare una propria giurisdizione la fattispecie relativa alle opposizioni agli atti esecutivi concernenti la regolarità formale o la notificazione del titolo esecutivo e particolarmente quelle controversie laddove il contribuente dopo l’inizio dell’esecuzione eccepisca di non aver mai ricevuto alcuna notifica dei predetti atti prodromici. 

Il dibattito giurisprudenziale si è protratto nel tempo, coinvolgendo due distinti filoni interpretativi e giungendo finalmente ad un approdo chiarificatore avutosi con la sentenza n. 13913/2017 delle sezioni unite della Cassazione, attraverso cui è stato affermato il seguente principio di diritto: 

IN MATERIA DI ESECUZIONE FORZATA TRIBUTARIA, L’OPPOSIZIONE AGLI ATTI ESECUTIVI RIGUARDANTE L’ATTO DI PIGNORAMENTO, CHE SI ASSUME VIZIATO PER L’OMESSA O INVALIDA NOTIFICAZIONE DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO (O DEGLI ALTRI ATTI PRESUPPOSTI DAL PIGNORAMENTO), E’ AMMISSIBILE E VA PROPOSTA – AI SENSI DEGLI ARTT. 2, COMMA 1, SECONDO PERIODO, 19 DEL D. LGS. N. 546 DEL 1992, 57 DEL DPR 602 DEL 1973 E 617 COD. PROC. CIV. – DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO. 

Ergo, mutatis mutandis, residualmente tutte le opposizioni ex art. 617 cpc e le eventuali controversie nel merito (si pensi al caso di avvenuto accoglimento della prospettata opposizione a fronte di un inizio dell’esecuzione presso terzi mai notificato al debitore esecutato il di cui provvedimento di accoglimento non preveda altresì la restituzione dell’esecutato indebitamente) aventi ad oggetto l’omessa notifica del primo atto dell’esecuzione, dovranno proporsi innanzi al giudice ordinario.

 
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