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EVENTI

LE SANZIONI AMMINISTRATIVE - LE SEZIONI UNITE 22082/2017 E LA CEDU

lunedì 21 gennaio 2019










Nel sistema giuridico vigente, sin da oramai quasi un quarantennio alla data odierna, radicale è stata la scelta legislativa effettuata la fine di porre rimedio ad un sistema penale sempre meno cogente e al contempo troppo pressante per alcuni ambiti della vita di ogni giorno, con l’introduzione di un sistema sanzionatorio amministrativo volto alla repressione di alcune condotte del più amplio e variegato panorama.

Per l’effetto, risulta facile rintracciare, dopo l’accattivante intento di ricondurre ad un unicum tale scelta legislativa con l’emanazione della nota Legge 689 del 1981, regolamentazioni di vari ambiti del nostro diritto prevedenti sanzioni di natura amministrativa per condotte ritenute illecite e relative al diritto tributario, al diritto del lavoro, in materia di circolazione stradale etc. etc.

Un problema di non pronta e facile soluzione, discende dal quadro di riferimento inerente proprio le peculiarità di tali normative, tutte espressamente richiamanti principi quali quello di legalità, di personalità della responsabilità rispetto agli illeciti compiuti e di combinazione di questi con l’ultroneo e peculiare principio di solidarietà proprio in materia di riscossione delle emanande sanzioni.

Proseguendo per piccoli passi, non si può prescindere dal comprendere pertanto le finalità precipue di tali norme sanzionatorie, desumibili proprio in virtù di molteplici precedenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo (per brevità, CEDU): infatti, la Corte di Strasburgo ravvisa nel sistema sanzionatorio amministrativo un sistema repressivo di natura penale allorquando oltre alla predetta caratteristica (repressività) siano altresì ravvisabili la finalità preventiva e quella punitiva, ma non anche quella risarcitoria delle sanzioni in parola.

Alla luce di tale univoca interpretazione data dalla CEDU, la sentenza in oggetto al presente breve lavoro, quantunque richiamante giurisprudenza maggioritaria e dirimente almeno pel caso all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione, non può condividersi nella sua totalità.

Infatti, le sezioni unite, chiamate a dirimere il contrasto sul punto se la norma che estingue l’obbligazione al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria in favore del trasgressore principale estingue altresì anche l’ulteriore obbligazione dell’obbligato in solido, hanno ritenuto inopportuno il doversi ritenere estinta (a prescindere dall’avvenuta notificazione della sanzione all’obbligato principale trasgressore materiale) l’obbligazione solidale.

Vi è da dire con certezza e altrettanto stupore che, tra le righe, il massimo organo della funzione nomofilachia (di interpretazione delle norme), chiarisce l’ovvia necessità comunque di procedere alla notificazione in favore di tutti i soggetti eventualmente sanzionabili in forza dei precetti violati; ma, pur sempre, lascia basiti perché una tal conclusione di mancata estinzione dell’obbligazione solidale, collide e stride proprio con la predetta definizione data dalla CEDU e ancor maggiormente con tutto l’impianto sanzionatorio penal-amministrativo basato sulla personalità della responsabilità amministrativa.

Per chiarire il concetto in parola, basti pensare alle norme che coinvolgono quotidianamente una moltitudine di consociati (ma il discorso vale ovviamente in tutti gli altri casi laddove la normativa preveda sanzioni amministrative): si pensi ad esempio ad una classica multa notificata per eccesso di velocità, comportante oltre alla semplice sanzione pecuniaria, la decurtazione dei punti nonché la sospensione della patente.

Ebbene, nulla di più sorprendente sarebbe ravvisabile ove la notifica per mancata tempestiva contestazione giungesse ad uno solo dei soggetti come preventivamente individuati dal codice della strada, e, per di più, tale soggetto materialmente sanzionato (appunto, tramite l’avvenuta notifica poiché obbligato in solido), non possa assolutamente ritenersi il trasgressore (perché, per esempio, di sesso differente dal materiale trasgressore come ricavabile dai rilievi fotografici della condotta a punirsi). La mancata notifica al trasgressore nei termini previsti, importerebbe la decadenza dalla possibilità di perseguire le finalità precipue del sistema sanzionatorio, ossia non sarebbe possibile reprimere, prevenire e punire la condotta del “malcapitato” conducente trasgressore, salvo a tutti gli effetti ottenere il mero ristoro (a questo punto in termini di solo risarcimento della condotta illecita).

Ed ancora; poniamo il caso che la notifica della sanzione sia effettuata ad uno solo dei coobligati in solido senza alcuna spiegazione e/o motivazione della scelta effettuata dal soggetto procedente; tale condotta, oltre ad essere foriera di una arbitrarietà quasi parificabile al potere de imperio, sarebbe altresì lesiva  rispetto al legittimo diritto di difesa sia dell’obbligato in solido che del trasgressore.

Non vi è chi non veda l’assurdità delle situazioni in questione, poiché peraltro foriere di facili contenziosi (tra tutti, i casi di irrogazioni di ordinanze ingiunzioni ove anche il trasgressore sarebbe nel pieno di intervenire e di opporsi al seguito dell’avvenuta notifica di tale ulteriore atto impositivo).

Infine, ma non da ultimo, diverso è il caso di cui al citato provvedimento laddove è chiaro l’intento legislativo di sanzionare a prescindere poiché la normativa prevede espressamente ed unicamente l’emanazione di sanzioni pecuniarie, nel mentre una serie di altre leggi unitamente alla sanzione amministrativa (multa) prevedono una serie di ulteriori sanzioni ben più cogenti e deterrenti proprio al fine di perseguire le finalità come delineate dalla CEDU e da sempre, storicamente, principi del nostro diritto penale e delle relative sanzioni penali e amministrative.  

IL MODEM 4 FREE

giovedì 6 dicembre 2018












Quando si pone la scelta tra i vari operatori presenti sul mercato relativamente alla fornitura dei servizi Internet (sia essa rivolta al più comune consumatore –B2C – o all’impresa –B2B), una delle voci di costo relativa al servizio in questione riguarda lo strumento terminale appunto fornito dall’operatore (il modem/router).

Dovendosi intendere con tale terminologia, quell’apparecchiatura per un verso in grado di trasformare in dati digitali i segnali elettromagnetici della linea telefonica e viceversa, nonché lo strumento idoneo a garantire e gestire una rete informatica anche in assenza di linea dati, nella totalità (o quasi) dei contratti offerti sul mercato, tale apparecchiatura risulta essere a pagamento.

A fronte di tale costo per l’utente/internauta e a sua tutela, il Regolamento Ue n 2015/2120 è intervenuto al fine di garantire misure riguardanti un accesso libero ad Internet.

Tale regolamentazione espressamente all’art. 3, I comma, prevede quanto segue: Gli utenti finali hanno il diritto di accedere a informazioni e contenuti e di diffonderli, nonché di utilizzare e fornire applicazioni e servizi, e utilizzare apparecchiature terminali di loro scelta, indipendentemente dalla sede dell’utente finale o del fornitore o dalla localizzazione, dall’origine o dalla destinazione delle informazioni, dei contenuti, delle applicazioni o del servizio, tramite il servizio di accesso a Internet”.

Il comma 2 del medesimo articolo stabilisce che “Gli accordi tra i fornitori di servizi di accesso a Internet e gli utenti finali sulle condizioni e sulle caratteristiche commerciali e tecniche dei servizi di accesso a Internet quali prezzo, volumi di dati o velocità, e le pratiche commerciali adottate dai fornitori di servizi di accesso a Internet non limitano l’esercizio dei diritti degli utenti finali di cui al paragrafo 1”. Al comma 3, il Regolamento reca “I fornitori di servizi di accesso a Internet, nel fornire tali servizi, trattano tutto il traffico allo stesso modo, senza discriminazioni, restrizioni o interferenze, e a prescindere dalla fonte e dalla destinazione, dai contenuti cui si è avuto accesso o che sono stati diffusi, dalle applicazioni o dai servizi utilizzati o forniti, o dalle apparecchiature terminali utilizzate”.

 Dal tenore letterale della citata normativa, è di facile intuizione il comprendere come qualsiasi fornitore di servizi di accesso ad Internet, non possa imporre proprie apparecchiature (modem/router) all’utente finale e, per di più, non possa altresì prevedere pagamenti per la fornitura di tali apparecchiature.

Per rendere cogenti tali obblighi nei confronti delle varie compagnie offerenti Internet (con buona pace delle best practice di settore!), si è dovuta attendere una recente delibera dell’Autorità Garante della Concorrenza e dei Mercati (AGCOM), la quale nella riunione del proprio Consiglio del 18 luglio, ha di fatto imposto alle compagnie in parola di liberare l’utente finale dall’obbligo di contrarre andando a pagare altresì quanto relativo alle cosiddette “apparecchiature finali” (appunto, il modem/router).

Nel dettaglio, con la delibera n. 348/18/CONS, l’autorità ha chiarito che non può essere imposto alcun dispositivo finale al fine di poter fruire sei servizi Internet presenti sul mercato; che le compagnie dovranno rendere pubblici tutti i dati utili affinchè l’utente finale possa collegarsi al singolo provider con qualsiasi modem/router presente sul mercato; che i nuovi contratti a stipularsi (e ogni ulteriore incombente documentale) dovranno recepire tali obblighi entro 90 giorni dalla pubblicazione del provvedimento (e, quindi, dal 2 agosto – momento di pubblicazione della delibera – entro l’originario 31 ottobre 2018; infine, ma non da ultimo, entro 120 giorni dalla pubblicazione del provvedimento in esame e : …..limitatamente ai contratti in essere che prevedono l’utilizzo obbligatorio del terminale a titolo oneroso per l’utente finale: a. Propongono all’utente la variazione senza oneri della propria offerta in una equivalente offerta commerciale che preveda la fornitura dell’apparecchiatura terminale a titolo gratuito o che non ne vincoli l’utilizzo attraverso l’imputazione di costi del bene o dei servizi correlati al terminale nella fatturazione; b. In alternativa, consentono all’utente finale di recedere dal contratto senza oneri diversi dalla mera restituzione del terminale, dandone adeguata informativa.
Poiché il provvedimento non è stato ancora recepito da tutte le compagnie e al fine comunque di dar modo ai singoli fornitori di adeguarsi alla delibera in parola (sempre in barba all’essere compliance!), con la delibera n. 476/18/CONS, la stessa Autorità ha prorogato i predetti termini (volti all’adeguamento sia relativamente alle nuove forniture che rispetto ai contratti in essere) di ulteriori 30 giorni (e, quindi, rispettivamente al 30 novembre u.s. per l’adeguamento dei nuovi contratti e al 30 dicembre 2018 per ottimizzare e regolarizzare i contratti in essere).

LA DIFESA DELLA AGENZIA ENTRATE – RISCOSSIONE (EI FU -? - EQUITALIA)

venerdì 30 novembre 2018


 















Con l’entrata in vigore del D.L. 193/2016 (convertito in legge con la 225/2016), tutte le competenze già attribuite alla Equitalia s.p.a. (quale soggetto incaricato per la esecuzione di tutte le espropriazioni forzate pubbliche), sono passate in capo alla Agenzia delle Entrate Riscossione (abbreviata, ADER).

Per effetto della citata normativa, l’ADER (per definizione di legge, ente parificato a persona giuridica di diritto privato) può e deve stare in giudizio rappresentato processualmente per mezzo del patrocinio ad opera dell’Avvocatura dello Stato, o tramite propri dipendenti espressamente delegati e, solo in casi eccezionali nonché particolari, avvalendosi della difesa da parte di avvocati del libero foro.

Infatti, la norma di modifica del preesistente soggetto interessato alla riscossione, all’art. 1 comma 8, così si esprime: “L'ente  e'  autorizzato   ad   avvalersi   del   patrocinio dell'Avvocatura dello Stato ai sensi dell'articolo 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in Giudizio dello Stato e sull’Ordinamento dell’Avvocatura dello Stato di cui al regio decreto 30 ottobre 1933,  n.  1611, fatte  salve  le ipotesi di conflitto e comunque su base convenzionale. Lo stesso ente puo' altresi' avvalersi, sulla base  di  specifici  criteri  definiti negli atti di carattere generale deliberati ai sensi del comma 5  del presente articolo, di avvocati del libero foro,  nel  rispetto  delle previsioni di cui agli articoli 4 e 17  del  decreto  legislativo  18 aprile 2016, n. 50, ovvero puo' avvalersi  ed  essere  rappresentato, davanti al tribunale e al  giudice  di  pace,  da  propri  dipendenti delegati, che possono stare in giudizio personalmente; in ogni  caso, ove vengano  in  rilievo  questioni  di  massima  o  aventi  notevoli riflessi economici, l'Avvocatura dello Stato,  sentito  l'ente,  può assumere direttamente la trattazione della causa. Per il patrocinio davanti alle commissioni tributarie continua ad applicarsi l'articolo 11, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546.”.

Nonostante il chiarissimo tenore letterale della regolamentazione sul punto, l’ADER ha pensato bene di costituirsi in molti giudizi, innanzi a varie magistrature, facendo buon utilizzo della prassi consolidata di affidare incarichi in favore di avvocati del libero foro, senza nessun atto prodromico come espressamente previsto dalla legge.

Tale situazione (e come sarebbe mai potuto essere diversamente) non è sfuggita all’attenzione dei Giudici della Suprema Corte di Cassazione, i quali con la sentenza n 28684 del 9 novembre 2018, hanno chiarito che:

-         In linea generale la difesa dell’ADER deve essere assunta da parte dell’Avvocatura dello Stato;

-         Nel caso in cui vi siano situazioni di conflitto di interesse per l’interessamento dell’Avvocatura dello Stato, l’ADER può fare ricorso ad avvocati del libero foro solo ove si sia in casi speciali, si siano ricevute le debite autorizzazioni – preventivamente, motivatamente e appositamente – dall’organo deliberante, sia stato ricevuto il beneplacito dell’organo di vigilanza e, infine, ma non da ultimo, sia prodotta tale documentazione nel giudizio a quo.

Per esattezza e puntualità, c’è da aggiungersi che la questione è stata trattata dai Giudici di Piazza Cavour poiché il medesimo ente (ADER) si era costituito in un processo già pendente alla data di entrata in vigore della novella (ossia il 1 luglio 2017), a mezzo di un Avvocato del libero foro, ed ha portato tale magistratura superiore a ritenere la nullità della difesa spiegata, rilevabile di ufficio nel momento in cui sia stata palesata a mezzo di costituzione effettuata da avvocati del libero foro sprovvisti di ogni atto di cui al precedente paragrafo.

Per effetto della stessa rivisitazione, appare altresì determinante andare a controllare gli atti di costituzione in giudizio, deduzioni e controdeduzioni, ricorsi in appello e Cassazione (e ogni altro atto processuale – memorie autorizzate, atti di intervento etc. etc.) al fine di verificare l’utilizzabilità e validità dei medesimi; se del caso (quantunque, appunto, trattandosi di questione che verte sulla legittimazione processuale del difensore quale eccezione rilevabile di ufficio in qualsiasi stato e grado del procedimento), sollevare eccezioni di inammissibilità delle difese tutte spiegate e inutilizzabilità delle deduzioni avanzate e della documentazione allegata dall’ADER.

La difesa giudiziale dell’ADER deve quindi avvenire, in via generale, ad opera dell’Avvocatura dello Stato e, solo in via del tutto residuale ed eccezionale, ad opera di avvocati del libero foro.

L'EREDITA' - LE AZIONI A TUTELA DEGLI EREDI

martedì 27 novembre 2018


Non sempre nelle successioni a causa di morte (comunemente “eredità”), i vincoli famigliari più stretti, ricevono quanto dovrebbero.

Tutto ciò ha portato giuristi dell’epoca del diritto romano a immaginare delle azioni (cause) attraverso cui procedere alla tutela del malcapitato parente escluso (parzialmente o totalmente) dall’eredità del defunto.

Tutta la materia è stata ripresa e fatta propria dal nostro Codice civile del 1942, laddove agli articoli 553 e successivi vengono normate le due azioni volte alla predetta tutela: l’azione di riduzione e l’azione di petizione di eredità.

Le due azioni si differenziano poiché mentre la prima ha per scopo la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre e vede quali attori delle controversie il legittimario leso, quello escluso dal testatore, l’erede e l’avente causa del legittimario; la seconda invece, mira ad ottenere la restituzione di beni ereditari da chiunque li detenga, previo riconoscimento della qualità di erede.

Per comprendere meglio ciò di cui si scrive, non si può prescindere da un breve glossario etimologico (spiegazione dei termini utilizzati), dovendo iniziare ovviamente dalla definizione delle tipologie di eredi:

-         Eredi testamentari: tutti coloro i quali succedono nelle posizioni giuridiche del defunto in forza di disposizioni unilaterali testamentarie;

-         Eredi legittimi: tutti coloro i quali succedono nel patrimonio del defunto (intendendosi per tale sia le posizioni attive – crediti e proprietà – che quelle passive – debiti e similari -) in forza di puntuali disposizioni di legge;

-         Eredi legittimari: sono invece dei parenti del defunto (ad iniziare dal coniuge superstite e i figli) a cui la legge riserva espressamente una quota dell’eredità, a prescindere da qualsivoglia disposizione testamentaria.

Ed è proprio in soccorso di quest’ultima categoria che le azioni in parola vengono in rilievo, proprio perché poste a tutela della intangibilità delle cosiddette quote di riserva o di legittima; in buona sostanza, il defunto non può disporre liberamente (sia tramite donazioni, sia tramite testamento) del proprio patrimonio in virtù dei rapporti parentali esistenti al momento del trapasso a miglior vita.

E’ bene a tal proposito chiarire che quando si parla di quote di riserva non si devono considerare tali, delle quote definite in senso qualitativo (ad esempio, una determinata porzione di un immobile caduto in successione), ma tale rappresentazione prevista per legge deve intendersi nel senso quantitativo (per cui, la quota ben può essere soddisfatta pel tramite di un pagamento di somme di denaro equivalenti, laddove esistenti).

Partendo con l’azione di riduzione, la stessa si sviluppa mediante vari passaggi volti a comprendere con esattezza il cosiddetto “asse ereditario” (quindi, con una valutazione estimativa volta alla quantificazione monetaria dei beni ritrovati al momento del decesso del congiunto – relictum – nonché di quanto eventualmente donato (direttamente e indirettamente) in vita.

Una volta operata tale fittizia riunione dell’asse ereditario, bisogna procedere a sottrarre dalle attività, tutte le passività facenti capo al de cuius (i debiti, con i vari distinguo asseconda della natura di questi ultimi).

Dopo tale non facile rappresentazione estimativa (poiché alle volte coinvolgente beni di diversa natura e necessitante accessi non altrettanto facilmente esaudibili – si pensi al caso delle somme esistenti su di un conto corrente esistente al momento del decesso e all’ottenimento da parte del legittimario pretermesso di copia dei dati intelleggibili degli estratti conto -), si dovrà intraprendere una vera e propria causa civile in cui richiedere l’accertamento della qualità di erede (nel caso di pretermissione) e/o la dichiarazione di nullità delle disposizioni testamentarie e/o donazioni effettuate in vita perché lesive delle quote di riserva; infine, procedere con l’ottenimento di un provvedimento che obblighi gli eredi e i terzi detentori alla restituzione delle somme o quantità di beni caduti in successione equivalenti alla quota di riserva lesa.

L’azione di riduzione è soggetta in generale al termine prescrizionale (si può intraprendere) di dieci anni decorrenti dall’apertura della successione (o, da momento successivo in alcuni casi particolari – si pensi tra tutte al riconoscimento della qualità di figlio del defunto avvenuta successivamente rispetto alla predetta apertura della successione -).

Di converso, l’ulteriore azione (petitoria)  ha per oggetto appunto l’acclaramento della qualità di erede e la richiesta di restituzione dei beni detenuti da soggetti titolati o meno rispetto a quanto caduto in successione.

Nonostante possa sembrare simile la tutela apprestata, le due azioni si differenziano proprio perché la seconda è volta a sconfessare la illegittima detenzione di beni caduti in successione da parte di soggetti contestanti appunto la qualità di erede del soggetto interessato (si pensi ad esempio al caso in cui il defunto abbia donato in vita l’unico cespite immobiliare detenuto in favore di uno solo dei due figli, non lasciando alcunché in punto di morte con consequenziale successiva mancata apertura della successione).

Ulteriore differenza esistente tra le due azioni, consiste proprio nel fatto che la seconda, poiché volta all’acquisizione della qualità di erede, è imprescrittibile, per cui potrà essere azionata in qualsiasi momento pur di riuscire a rientrare nella titolarità dei beni del de cuius.

Quantunque le due azioni possano risultare di non pronta comprensione, il diritto successorio come normato dal codice civile vigente, risulta sicuramente normativa chiara e indiscussa; per completezza descrittiva è appena il caso di ricordare, come anche tale materia rientra tra quelle per cui è prevista la procedura alternativa di risoluzione delle controversie della mediazione civile; per cui, ancor prima di intraprendere le predette azioni, necessario ed obbligatorio è il dover percorrere la via risolutiva stragiudiziale.  

LA FIDEIUSSIONE: IL MERITO DOPO CASSAZIONE 29810

giovedì 22 novembre 2018












Con l’ordinanza 29810 del 12 dicembre 2017, la Cassazione ha aperto uno scenario interpretativo variegato, andando in primis a sancire espressamente come (cfr. 11.2): “….qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque forma venga posta in essere, costituisce comportamento rilevante ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 2 della legge Antitrust…”.

Tale provvedimento (per altro verso, già citato al seguente link http://www.studiolegalescaringella.it/2018/11/la-fideiussione-e-la-tutela-della.html ) dichiara altresì nulli tutti i negozi a valle (ossia, quelli sottoscritti da consumatori - e non - riproducenti gli schemi a monte dichiarati nulli) contenenti alcune clausole già oggetto di dichiarazione di illiceità per contrarietà alla normativa antitrust ad opera dell’autorità garante per la concorrenza (ed esattamente quelli incorportanti clausole di reviviscenza, sopravvivenza e deroga all’art. 1957 del codice civile).

Dal dicembre 2017 ad oggi, vari Tribunali hanno già avuto modo di affrontare la materia e, come immaginato da diversi autori, diversi dubbi interpretativi sono stati lasciati agli operatori (e consumatori direttamente interessati poiché fideiussori in altrettante garanzie prestate).

Infatti, è lecito chiedersi se: 1) a seguito della citata ordinanza, i contratti di fideiussione riproducenti le predette clausole, debbano intendersi colpiti da nullità assoluta o nullità relativa alle sole pattuizioni in parola; di conseguenza, 2) la relativa eccezione debba essere sollevata dal fideiussore oppure è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del processo civile; 3) il processo di opposizione incardinato innanzi al Tribunale emittente il decreto ingiuntivo debba essere sospeso per la soluzione della questione pregiudiziale (nullità contrattuale per contrarietà alla normativa antitrust, di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa) e debba essere sospesa altresì la provvisoria esecutorietà del provvedimento ingiuntivo; 4) ove l’eccezione venga sollevata in appello, valga quale causa per la sospensione del provvedimento di I grado oggetto di impugnativa.

Ad onor del vero, si potrebbe continuare riempiendo pagine intere di quesiti possibili; si preferisce cercar di dar delle risposte sulla base delle sentenze di merito già ad oggi esistenti.

Partendo dalla sentenza più lontana nel tempo (rispetto ai provvedimenti emessi dai Tribunali e dalle Corti di Appello dall’ordinanza della Cassazione ad oggi), la Corte di Appello di Firenze con provvedimento del 18/7/2018 ha ritenuto di dover interpretare sussistenti i presupposti per sospendere la provvisoria esecuzione della sentenza di I grado alla luce del principio dettato dalla Cassazione con la 29810 del 12/12/2017.

Con ciò, quantunque la Corte territoriale si sia determinata ad una attenta analisi più approfondita ad effettuarsi solo nel corso del prospettato gravame (del resto, a sommesso avviso dello scrivente, non avrebbe potuto fare diversamente), ha lasciato disattese le speranze degli operatori sui molteplici dubbi di cui sopra.

La XVI sezione civile del Tribunale di Roma si è spinta oltre e, con l’ordinanza del 26/7/2018, ha respinto la richiesta di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto e ordinato la prosecuzione secondo l’ordinario svolgersi processuale come richiesto dalle parti.

Il Tribunale di Treviso, senza peraltro averne cognizione (ex art. 33 legge 287/1990 come novellato ai sensi dell’art. 3 d. lgs. 3/2017), ha ritenuto di non dover ravvisare l’applicabilità della normativa antitrust e del principio di diritto dalla Cassazione enunciato al caso sottopostole (sentenza n. 1632/2018 del 30/7/2018); per altro verso, le argomentazioni poste a base della decisione, denotano attenta (e saggia) rilettura delle cause di nullità afferenti la fattispecie in materia di fideiussione.

Più vicina nel tempo è la sentenza n. 3016 del 28 agosto 2018 emessa dal Tribunale di Salerno (ferme restando le ovvie perplessità come chiarite in punto di competenza); di tale provvedimento già si parla quale sentenza pilota, stante l’avvenuto riconoscimento del giudicante della piena applicabilità della normativa antitrust alle fideiussioni riproducenti le maldestre clausole frutto di intese anticoncorrenziali “frutto di una collusione a monte…”.

In settembre u.s., anche il Tribunale di Rovigo si è occupato della medesima materia e, respingendo l’eccezioni in punto di diritto (sull’applicabilità della normativa antitrust alla fideiussione al vaglio), ha concesso la provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo (ordinanza del 9 settembre 2018).

Di contrario avviso il Tribunale di Fermo, che con atto del 24 settembre ultimo scorso, ha riconosciuto la mera eccezione di parte in punto di nullità del contratto di fideiussione quale valido motivo per non concedere la provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto; l’estensore si è spinto ben oltre ed ha esternato in motivazione la possibilità che tali fattispecie vengano ricondotte nell’alveo della nullità assoluta dei negozi giuridici controversi.

Infine, ma non da ultimo, il Tribunale di Brescia con proprio provvedimento del 2 ottobre 2018, ha esternato la necessità di devolvere le controversie in merito in favore delle sezioni specializzate in materia di Impresa (preliminarmente ritenendo tale competenza devoluta per materia a tali Magistrati, nonostante la competenza funzionale in materia di opposizione all’emesso decreto ingiuntivo spetti all’organo emittente).

Tale provvedimento ha altresì citato la normativa in materia di sospensione (rispetto alla spiegata opposizione) e rimessione innanzi alle speciali sezioni Impresa.

Tralasciando allo stato ogni personale valutazione rispetto ai quesiti ancora irrisolti e il di cui dipanamento vedremo solo con l’evolversi del diritto vivente in materia, non ci resta che attendere fiduciosi, nella piena convinzione che ogni singolo caso sarà attentamente vagliato e, ove ricorrano i presupposti (fumus), siano concessi i provvedimenti opportuni a difesa della legalità.

LA RIUNIONE DELLE CAUSE CIVILI

venerdì 16 novembre 2018


Il codice di rito prevede espressamente la possibilità per cui ove esistano più cause civili aventi determinate caratteristiche, queste vengano trattate congiuntamente.

La casistica in parola, è normata dagli articoli 273 e 274 del codice di procedura civile e attiene fondamentalmente alle situazioni della identità di cause pendenti davanti allo stesso Giudice nonché alle cause connesse promosse innanzi a Giudici differenti.

Di facile comprensione è la ratio sottostante il medesimo istituto, posto chè ove non esistente la riunione civile, una infinita mole di giudicati (sentenze) sarebbero potuti risultare contrastanti (in maniera esemplificativa, la pendenza di due diversi giudizi aventi entrambi quale finalità quella di ottenere un risarcimento per qualsivoglia natura, avrebbe potuto condurre a sentenze diverse e di segno opposto, ossia una di accertamento e condanna e l’altra di rigetto).

Dalla semplice lettura degli articolo citati, ben si comprende come facilmente risolvibile è la situazione di identica causa pendente innanzi al medesimo magistrato, ove questi, anche senza che le parti sollevino eccezioni di sorta (proferiscano parola in merito), deve procedere alla riunione dei processi.

Particolare è la situazione in cui le medesime cause siano pendenti innanzi a diverse postazioni giudicanti; in tal caso, il magistrato riscontrante tale anomalia, deve avvisare il Presidente del Tribunale (o, nel caso di organi della stessa sezione civile, il Presidente di questa), che a sua volta ordina la prosecuzione della causa innanzi ad uno solo dei magistrati interessati.

Ma, nel mentre i casi di cui sopra, sono di solito ritenuti dalla unanime giurisprudenza e dottrina, quali situazioni obbligatorie della riunione dei processi (per l’appunto, ex art. 273 cpc), di diverso avviso è l’atteggiarsi della riunione dei processi connessi.

Premesso che per connessione deve intendersi la situazione afferente ad una determinata situazione giuridica avente una comunanza di elementi; di seguito, in virtù degli elementi comuni, discende la classificazione in connessione oggettiva e connessione soggettiva (la prima relativa a elementi quali le ragioni del processo, la domanda giudiziaria, un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra le cause; la secondo, appunto soggettiva, allorquando i soggetti in causa, risultino uguali e/o siano comunque ricollegabili a tutela di situazioni giuridiche simili e/o affini).

Facciamo un esempio al fine di chiarire quanto si discute; nel caso una stessa assemblea condominiale, in due diverse assemblee, deliberi delle spese straordinarie (magari relative all’installazione di due distinti apparati di antenna volti a servire ciascuno parte del condominio) e un condomino sia contrario (perché dell’avviso di poter ottenere il medesimo risultato – far vedere a tutto il condominio con un’unica antenna, la televisione – con costi inferiori rispetto all’installazione del doppio impianto), questi si vedrà costretto a intraprendere una prima causa civile (nel caso che ci occupa, prima la mediazione civile, obbligatoria per la materia) e, all’esito della seconda delibera, un ulteriore giudizio.

L’assurdità della situazione (salvo ad essere sinceri il caso limite della causa connessa già in decisione) è ancor più stridente ove si pensi che la normativa in esame assegna espressamente la delibazione nel merito della eventuale riunione, in favore del Presidente del Tribunale e/o di sezione asseconda dei casi; nella prassi, da quanto è dato sapere, il Giudice Unico investito della richiesta, stante la facoltatività della riunione, procede senza formalismi di sorta, con grave nocumento rispetto alla richiesta di giustizia, legalità.

Per effetto, ci si auspica che la normativa possa essere oggetto di pronta rivisitazione, in maniera da evitare che il discrezionalismo possa diventare ragione per l’emissione di provvedimenti poco confacenti all’accaduto e essere altresì unico artefice di contrasti tra sentenze emesse da Giudici dello stesso Tribunale e/o della stessa sezione.  

Infine, ma non da ultimo, nel silenzio della norma processuale, la Suprema Corte di Cassazione in materia di prove raccolte in uno dei due processi successivamente riunito, ritiene utilizzabili le stesse solo quando raccolte tra le parti in causa e in contradditorio (ossia, garantendo la bontà della prova e i principi del processo civile con la piena e regolare partecipazione dei soggetti interessati – attore e convenuto, ricorrente e resistente -).

LA FIDEIUSSIONE E LA TUTELA DELLA CONCORRENZA

giovedì 15 novembre 2018


Da oramai oltre un ventennio, il nostro Ordinamento, adeguandosi a quanto in ambito europeo vigente, ha fatto propria la normativa in materia di tutela della concorrenza, andando a disciplinare e regolamentare ogni aspetto relativo alle intese, all’abuso di posizione dominante e allE operazioni di concentrazione (Legge 10 ottobre 1990, n. 287).

Tra le altre, di particolare importanza è la costituzione dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, istituzione amministrativa indipendente volta alla vigilanza contro gli abusi di posizione dominante, intese e cartelli lesivi o restrittivi della concorrenza, controllo delle concentrazioni societarie, tutela del consumatore in materia di pratiche commerciali scorrette, clausole vessatorie e pubblicità ingannevoli.

I poteri in materia bancaria, sono stati devoluti dalla Banca d’Italia alla stessa Autorità a far data dal 12 gennaio 2006.

Tra le materie al vaglio dell’Autorità, le fideiussioni (ritenendosi per tali tutti i contratti attraverso cui un soggetto  - cd. Fideiussore - si obbliga personalmente verso un creditore, al pagamento e garanzia di tutte le obbligazioni verso questi assunte da un terzo), sono causa di contenzioso e di pratiche scorrette effettuate dai diversi istituti di credito nei confronti dei propri clienti (tra tutte, si pensi al caso della nota fideiussione omnibus illimitata senza obbligo di comunicazione).

La stessa Autorità (all’epoca degli accadimenti rivestita dalla Banca d’Italia) ha emesso il provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, con cui ha sancito la contrarietà alla legislazione in materia anticoncorrenziale delle clausole contenute nelle condizioni generali di contratto per la Fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie.

In particolare, tale provvedimento ha rinvenuto in alcune clausole riproducenti norme predisposte dallo schema ABI nonché nella loro applicazione uniforme da parte degli istituti di credito, una intesa restrittiva della concorrenza come vietata dall’art. 2, comma 2, lett. a della citata legge 287/1990 (in particolare, l’atto si è soffermato nel ritenere illegittime le clausole di sopravvivenza, reviviscenza e derogatorie dei termini come precipuamente delineati ex art. 1957 c.c.).

Tale situazione ha portato all’instaurazione di diversi procedimenti giudiziari, volti all’accertamento della nullità dei contratti di fideiussione riproducenti tali pattuizioni.

L’assunto della illiceità dell’inserimento di tali clausole, ha condotto anche i Giudici di piazza Cavour (la Cassazione) ad emettere provvedimenti allineati alla suddetta interpretazione.

Ed infatti, con la ordinanza n. 29810 del 12/12/2017, si è statuita la possibilità di vaglio giudiziale di tutte quelle condotte contrattuali (e non) che rappresentano realizzazione “a valle” (nei confronti dei consumatori) di clausole “a monte” dichiarate illegittime, poiché contrarie alla normativa di tutela della concorrenza e dei mercati.

Pel caso che ci occupa, ancor più rilevante appare il dover intraprendere tali tipi di controversie, poiché la relativa competenza in materia è stata di recente devoluta in favore delle sezione specializzate per l’impresa (ex art. 3 D. Lgs. 3/2017).

Peraltro, solitamente tali situazioni processuali (come anche nel caso all’attenzione della Cassazione), prendono spunto da procedimenti volti a recuperare quanto prestato dagli istituti bancari contro i garanti (di solito, tramite ingiunzioni di pagamento ante causam); quindi, in primis sono incardinati innanzi al Giudice competente nel merito (Tribunale).

Solo in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, si dovrà sollevare eccezione di incompetenza per materia e richiedere la rimessione innanzi alla competente sezione specializzata in materia di impresa, unica titolare del potere giurisdizionale volto all’accertamento delle condotte contrarie alla normativa anticoncorrenziale e, nel caso delle fideiussioni, a poter constatare la nullità delle stesse poiché contrarie al dettato di cui all’art. 2, III comma L. 287/1990.  

L'ILLECITO CONCORRENZIALE CONFUSORIO

martedì 13 novembre 2018













In materia di marchi, spesso si rinviene la necessità di tutela dell’impresa (e, della propria azienda) rispetto a condotte di competitors più o meno consapevoli, volte a creare confusione nei destinatari dei prodotti presenti sul mercato.

Tralasciando la disanima tra le varie tipologie definitorie dei marchi (coinvolgenti la consequenziale maggiore o minore tutela proprio in materia di confondibilità del caso asseconda che si tratti di marchi cosiddetti “forti” o “deboli”), per inquadrare l’istituto in parola, non si può prescindere dal dato normativo di riferimento.

Tale è l’articolo 2598 1) del codice civile, il quale definendo le fattispecie riconducibili nell’alveo della concorrenza sleale, rintraccia questa in chiunque: “usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”.

Di pronta desumibilità appare l’ambito di applicabilità della norma in parola, rintracciando quali naturali destinatari tutti i soggetti che si trovino o si possano trovare in un rapporto di concorrenza economica (ergo¸tutti gli imprenditori operanti in un dato mercato).

Delineato il campo di applicabilità, opportuno appare definire con chiarezza e puntualità gli elementi su cui il giudizio di confondibilità verte; chiarificatore è stato l’intervento della Cassazione con cui si ha ritenuto che “in attuazione della Direttiva CEE n. 89/104, la tutela del marchio comprende non soltanto il rischio di confusione, determinato dalla identità o dalla somiglianza dei segni utilizzati per contrassegnare prodotti identici o affini, ma anche quello relativo alla semplice associazione fra i due segni, tale da poter indurre in errore il pubblico circa la sussistenza di un particolare legame commerciale o di gruppo tra l'impresa terza ed il titolare del marchio” (così Cassazione civile, sentenza n. 3639 del 13 febbraio 2009).

E’ di tutta evidenza l’ampliezza dei confini della tutela in parola, a maggior ragione laddove è stato affermato che il rischio di confondere i consumatori nel riconoscimento del marchio ricercato deve essere valutato “globalmente, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti del caso di specie, con una certa interdipendenza fra i fattori che entrano in considerazione e in particolare la somiglianza dei marchi e quella dei prodotti”.

Riassumendo, appare di poter dire che la tutela non ha limiti dal punto di vista spaziale, a tal punto da potersi estendere worldwide ed è applicabile andando ad analizzare caso per caso il reale conflitto riconoscitivo provocato dall’utilizzo di marchi facilmente confondibili o riconducibili al titolare della primogenia.

Le condotte che meglio si attanagliano alla tutela in parola, sono sicuramente relative all’ utilizzo di marchi idonei a confondere il consumatore nell’individuazione di quelli effettivamente ricercati e legittimamente usati da altri imprenditori; ed ancora, una imitazione abbastanza fedele dei prodotti del competitor, nonché, infine, gli atti o i fatti idonei a creare confusione con i prodotti e servizi resi da terzi.

Consequenzialmente, non vi è dubbio alcuno che non solo la mera confusione di marchi può essere oggetto della tutela in parola, dovendosì altresì analizzare la capacità dei predetti atti e fatti a creare effettivamente uno scambio tra prodotti e servizi simili e il connesso pregiudizio discendente dal procurato misunderstanding.

Desumibile pertanto diviene il bene giuridico oggetto di tutela, dovendosi rintracciare questi da un canto nell’interesse imprenditoriale a non subire pregiudizi per cause altrui rispetto al conseguimento del proprio profitto; d’altro canto e parimenti rilevante appare la tutela così apprestata in favore dei consumatori finali onde evitare che possano incorrere in errore, garantendo sempre agli stessi un mercato leale, trasparente e competitivo.


 
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